Corporate Governance e performance economica: il limite dello short termism
La
letteratura scientifica è contrastante su questo aspetto; ci sono studi che
evidenziano l’assenza dicorrelazione tra la performance economica e le
pratiche di CG (vedi Bauer et al del 2003 Empirical
evidence on corporate governance in Europe: The effecton stock returns, firm
valueand performance - September, 2003), mentre altri autori ritengono che un
sistema di CG possa avere effetti positivi sulla valutazione economica di
mercato di un impresa quotata (vedi Renders et al. 2010 - Corporate-Governance
Ratings and Company Performance: A Cross-European Study).
Non
essendoci un indirizzo univoco è difficile giungere ad una posizione chiara e
definitiva; è, tuttavia, evidente che un sistema di CG improntato
all’implementazione di pratiche che assicurano una gestione che è attenta alla
creazione e conservazione del valore nel medio e lungo termine e che si prodiga
di promuovere il rispetto dei diritti di tutti i portatori di interesse possa,
più di altri sistemi, ridurre i rischi e garantire, se non il raggiungimento di
migliori performance economiche di breve periodo, certamente una conservazione
del patrimonio aziendale nel tempo.
Tra
i driver più rilevanti che un buon sistema di CG può introdurre nelle prassi
decisionali delle aziende c’è con ogni probabilità l’attenzione dei manager e
degli azionisti al futuro.
In
effetti, negli anni pre-crisi molte imprese private hanno mostrato evidenti
limiti di gestione strategica soprattutto nella scelta degli investimenti e
delle politiche dei dividendi, entrambe spinte e votate per rispondere a
logiche di breve termine.
Il
rapporto di agenzia e le asimmetrie informative, che rappresentano i più
rilevanti problemi nelle relazioni tra azionisti e management, hanno portato
negli ultimi trent’anni, soprattutto le grandi imprese, ad una forte espansione
di politiche di contrazione degli investimenti, in special modo quelli di lungo
termine. Agli investimenti spesso sono state preferite attività di
distribuzione dei dividendi e di riacquisto delle azioni per spingere le quotazioni
trimestrali.
Strategie
di questo tipo minano, tuttavia, i flussi economici del futuro. Preferire la
distribuzione dei dividendi in luogo di investimenti in attività di ricerca e
sviluppo può rendere attrattiva l’impresa agli occhi di investitori speculativi
ma non certo all’attenzione di quelli istituzionali.
In
questo modo si raccoglie capitale, ma un capitale che non è stabile e che
probabilmente si sposterà presto verso rendimenti più profittevoli.
Le
aziende dipendono, invece, dai flussi reddituali e dai flussi di cassa che
conseguiranno nel futuro e questi dipendono dagli investimenti produttivi e
innovativi.
E’
interessante, in tal senso, l’analisi condotta da Andrew Haldane (capo
economista della Bank of England) che insieme ad altri studiosi ha analizzato i
bilanci di 624 imprese quotate in parte sull’indice britannico FTSE e in parte
sull’indice S&P. Il periodo oggetto dello studio riguarda gli anni che
vanno dal 1980 al 2009. Il modello usato da Haldane consentiva di individuare
le politiche di short-termism, utilizzate dalle imprese target, attraverso la
misurazione del tasso di sconto applicato, che in genere si è rivelato essere
molto superiore a quello reale. Un tasso di sconto elevato riduce il valore
attuale netto dei flussi futuri, rendendo meno appetibile e conveniente un
investimento (il costo dell’investimento eccede il VAN e quindi viene
scartato).
L’autore
prosegue commentando gli studi fatti da altri economisti e conclude che in Gran
Bretagna come negli USA, i due paesi che hanno mercati finanziari molto
sviluppati, i mancati investimenti in ricerca e sviluppo sono molto ingenti e
che, mentre, negli anni novanta circa metà delle prime duecento imprese
mondiali che investivano in ricerca e sviluppo erano, appunto, statunitensi o
britanniche, nel 2009 la quota di imprese anglosassoni attive nelle attività di
R&D era scesa di oltre il 18%. La riduzione degli investimenti comporta una
contrazione del rapporto tra capitale e produzione, una riduzione quindi della
capacità produttiva e quindi della produzione nazionale e della domanda
aggregata, con evidenti effetti macroeconomici.
Le
strategie di breve termine non rischiano di minare, pertanto, solo la
solvibilità delle imprese nel lungo termine ma anche la crescita economica e la
competitività dell’economia degli stati nazionali.
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